NATURE MORTE

Una volta mi capitò di osservare con particolare attenzione alcune fotografie di conchiglie. Mi ricordai allora della passione che da tanto tempo mi spingeva a raccoglierle.

Il loro fascino naturale, la loro armonia, anche nella più evidente e perfetta asimmetria mi fecero riscoprire quell'intimo mondo di cose che sento appartenere alla bellezza.

Con il tempo andava crescendo il desiderio di fotografare le "mie conchiglie" ma mai mi sentivo pronto.

Durante una visita ai padiglioni del Louvre dedicati alla pittura fiamminga incontrai in una teca due minuscoli oli su tavola; erano conchiglie dipinte da Adrian Coorte nel XVII secolo, un pittore olandese a me sconosciuto.

L'intimità, la raffinatezza e il taglio fotografico di quei quadri mi sorpresero e fu allora che, unendo miei desideri inespressi con la suggestione di queste pitture di natura morta, trovai il percorso per rappresentare emozioni che mi appartenevano.

Ciò che resta ora sono queste immagini che da un lato hanno dato forma a pensieri nascosti e dall'altro spero diano anche un omaggio alla vita nel suo semplice manifestarsi.

Mauro Davoli

 

 

 

 

 

 

 

 

 
fotografo

 

 

 





…A chi sta pensando, Davoli, mentre dispone le sue conchiglie, le sue noci, i suoi kiwi sopra un tavolo vuoto. Vorremmo trovare un nome, anzi a tratti ci sembra che il nome sia lì, sulla punta della lingua. Nome forse olandese o fiammingo, forse spagnolo. Ma, per quanti sforzi facciamo, non riusciamo ad articolarlo. E 1’impressione finale e questa: che Davoli si sia impadronito della 'cifra' formale di un certo ’genere’, tanto da poterlo ’trattare’ agevolmente con altri mezzi; e che la sua sia un’operazione colta, realizzata – senza nessuna visibile intenzione di ’citazione’ e parodia, e dunque senza concessioni al ’postmodernariato’ – con semplicita e naturalezza.

La natura morta e una forma d’arte ’privata’, concepita non per grandi spazi e saloni, ma per ambienti domestici, e per una contemplazione ricca di pause e di indugi. Queste piccole coalizioni di oggetti ci invitano a riflettere ora sulla diversità delle forme (ecco una conchiglia ricca di punte e di aculei vicino un’altra meravigliosamente arrotondata e smussata). Ora sulle scale di grandezza. Ora sugli involucri o sulle loro caratteristiche tattili (dal kiwi morbido e coperto di una lieve peluria alla durissima rugosa noce). Ora sui rapporti tra esterno e interno (e infatti vediamo spesso, vicino a un frutto intero, un frutto tagliato a metà). Ogni giustapposizione rafforza un sentimento già ’promesso’ dal ritmo dell’opera, insomma dal suo giuoco di pieni e di vuoti: quello della imminenza di un ’senso’, che tuttavia resta per noi inafferrabile. Ci troviamo di

fronte a dei ’rebus’ (proprio questa, da un punto di vista etimologico, sarebbe la parola giusta) che non hanno soluzioni accertabili.

"Che ne è stato del resto" I!, questa la domanda che può affiorare, una volta penetrati in un certo ordine di rappresentazione – ordine che prevede solo pochi oggetti disposti su un tavolo. E questa domanda diventa più ansiosa se, tra gli oggetti, scorgiamo un libro. Una clessidra. Un teschio. Celebrare la profusione della natura era stato, per certi pittori (basti ricordare un Bartolomeo Bimbi), e in una data stagione, l’intento degli autori di nature morte; ma in alcuni, penso a certi spagnoli e fra gli olandesi soprattutto ad Adriaen Coorte, il carattere di questa forma d’arte cambia. Si rinuncia alla sovrabbondanza, e alle sue pompe; ci si limita a mostrare poche cose – quasi residui di un mondo che non c’è più; e la sensualità, comunque necessaria a chi si proponga una rappresentazione fedele di forme e di materiali, si tinge di malinconia. La natura morta è diventata meditativa, e la meditazione approda al pensiero delle cose ultime, della fine. E cosi che si giunge alla ’Vanitas’.

Giovanni Mariotti

da FMR giugno 2002